[Adelphi, Milano 2007]
Con questa raccolta di racconti Adelphi continua la sua postuma presa di possesso dello scrittore tedesco W. G. Sebald (1944-2001). Dopo Austerlitz (2002) l’editore ha pubblicato in rapida successione i racconti di Vertigini (2003), i saggi Storia naturale della distruzione (2004) e Il passeggiatore solitario (2006), infine, l’anno scorso, Gli emigrati, che in Italia era già stato tradotto per Bompiani nel 1996. «Emigrati» per persecuzione politica e razziale, o per quella forma di persecuzione non meno brutale che è la miseria, sono i personaggi principali dei quattro racconti: quelli che dànno loro il titolo (Dottor Henry Selwyn, Paul Bereyter, Ambros Adelwarth, Max Ferber), e gli altri, quelli che riemergono dai ricordi dei primi o che, ricordando, offrono al narratore frammenti della propria e altrui biografia.
Lo stesso scrittore è un emigrato, e in ogni racconto ci appare in una diversa fase del proprio distacco dalla Germania. Ogni personaggio vive lo sradicamento in forme diverse. Spesso l’emigrazione è una fuga, tanto traumatica da venire sepolta nell’incoscienza; a volte invece il viaggio è accuratamente preparato, nella consapevolezza che sarà un trapianto per la vita; in alcuni casi si viene imprevedibilmente deviati dalla méta originaria, in altri la prima non è che l’inizio di una serie di migrazioni ininterrotte. Ciò che accomuna tutte queste esperienze è il punto di partenza: la Mitteleuropa, nei decenni precedenti o durante la conquista da parte del III Reich nazista.
L’opera di Sebald scava ossessivamente in questa ferita incisa nel cuore geografico d’Europa, la Germania, e in quello cronologico del Novecento, la seconda guerra mondiale. Ma ciò che interessa lo scrittore non è tanto il sangue versato quanto le sue conseguenze sulla costruzione, fatta di memoria e oblio, dell’immagine di sé di individui e popoli. A differenza di quanto accade nella tradizione che fa capo a Proust, i processi memoriali che dànno occasione e corpo alla scrittura di Sebald sono sempre di natura pluripersonale. Se la ricostruzione proustiana del passato origina da un’epifania soggettiva, esperienza individuale e privatissima, per Sebald la memoria, anche quella privata, passa attraverso un confronto intersoggettivo.
È il dialogo a edificarla, dialogo con le persone, con chi è rimasto e ricorda, ma anche con gli oggetti, muti testimoni del passato. Il narratore è l’erede, e la sua scrittura il deposito, di questo passato oggettivato: gli vengono affidati diari, album fotografici, manoscritti, che, incorporati nella scrittura, la trasformano in un mosaico di testo e iconografia, parola propria e altrui, in una vertiginosa mise-en-abîme del processo di tradizione della memoria e del racconto. Chiamati a rievocare il passato, gli oggetti – o la loro immagine, che spesso è tutto ciò che ne resta – non si trasformano per questo in tante madelaines.
Per Proust è la sensazione, non l’oggetto che la provoca, a far riemergere parti di sé che si rivelano depositi di passato; per Sebald gli oggetti hanno una consistenza propria, al di là dell’eco che suscitano nel soggetto. Le immagini incastonate nel testo hanno perciò un valore più allegorico che illustrativo: l’alterità iconica che introducono nel medium letterario è metafora della loro presenza oggettiva, materiale e corporea nel mondo, irriducibile all’io. A partire da questi reperti lo scrittore-archeologo non cessa di raccogliere informazioni e testimonianze, ne fa mostra come dei puntelli che ancorano la sua indagine a una comunità memoriale: ogni figura è una traccia, dalla quale si può ricostruire una vita.
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